Il progetto italo-francese di codice delle obbligazioni e dei contratti è il frutto del lavoro di un gruppo di giuristi italiani e francesi, sotto la guida di Vittorio Scialoja. L’idea madre fu lanciata dal maestro romano nel 1916 e lo schema definitivo fu approvato nel 1927, corredato da una relazione stesa da Alfredo Ascoli e Roberto de Ruggiero. Il saggio ricostruisce le vicende della formazione del testo, dà voce ai giuristi protagonisti dell’impresa, individua le loro convinzioni e lo spirito delle scelte normative, soffermandosi quindi sul dibattito del dopo-Codice, sui giudizi dati da giuristi italiani e stranieri (con una ricostruzione della polemica Betti-Scialoja), proponendo un’interpretazione del ruolo svolto da questo prodotto insigne della scienza giuridica italiana, come lo ebbe a definire Filippo Vassalli, che fece da apripista rispetto al libro IV delle obbligazioni del 1941, pur essendone distante nell’ispirazione di fondo. Nelle considerazioni vassalliane, al di là del consenso-dissenso su determinate soluzioni tecniche, leggiamo una sentita approvazione dell’operazione di unificazione del diritto civile messa in cantiere con il codice italo-francese in un’epoca di forte radicamento del dogma statualista, che ne giustifica ancora oggi il recupero alla memoria dei giuristi impegnati nell’elaborazione del diritto privato europeo. Nell’accostarsi al progetto italo-francese di codice delle obbligazioni e dei contrattioccorre tenere presente che due anime lo compongono. Si tratta infatti di un testo che, se da un lato intendeva rinnovare il diritto nazionale italiano e francese, sostituendo in blocco, con i suoi articoli, le corrispondenti parti dei codici civili vigenti, dall’altro era espressione di un progetto ancor più ambizioso, mirante alla ricostituzione di un diritto comune europeo delle obbligazioni e dei contratti. Il codice italo-francese, inoltre, si colloca in un momento di trasformazione (sociale, economica, politica) e, come tutti i prodotti di transizione, accoglie elementi del passato e del futuro, presenta aspetti di continuità e di discontinuità. I tempi del primo dopoguerra sono tempi di crisi del diritto privato, della centralità del codice civile e dei valori di cui esso è portatore, e più in generale di crisi del diritto come struttura portante di una società. In questo frangente, l’iniziativa privata di alcuni giuristi (in seguito fatta propria dai rispettivi governi) porta avanti un progetto di unificazione giuridica, limitato al settore patrimoniale, visto ancora come quello in cui più concreto appare il miraggio dell’unità, meno accentuato il particolarismo. Primo tentativo europeo di uniformazione dell’intero diritto delle obbligazioni, sorgente di un diritto privato comune tutto da ricostruire, e primo esperimento di revisione dei codici civili nazionali in un momento cruciale: sono entrambi elementi che aiutano a spiegare le contraddizioni di questo codice, frutto di una politica deliberata di conciliazione e di compromesso. Non fu soltanto l’obiettivo pratico dell’unificazione a far sottovalutare la portata della trasformazione in atto nell’economia mondiale e a ritenere sufficiente una mera revisione, piuttosto che un totale ripensamento dei fondamenti del diritto delle obbligazioni e dei contratti, ma anche una franca e convinta adesione a quei dogmi. Assorbito nel dibattito incandescente sulle modalità di elaborazione del nuovo codice civile, il progetto finì per essere considerato un testo che guardava troppo al passato e poco all’avvenire, in ritardo sui tempi, anche se conteneva alcune ardite innovazioni sostanziali ed era mosso dalla ‘nobile’ finalità di ricomposizione di un’unità giuridica perduta. «Il regno del diritto comune era finito!»: con quest’invocazione, nella Relazione al Progetto, si esprimeva lo sgomento suscitato dall’avvento dei codici nazionali. Pur non avendo mai ricevuto forza di legge, il progetto fu ugualmente considerato come un testo di riferimento, imperio rationis, dalla giurisprudenza, dalla dottrina, dai legislatori. La più nota, a questo riguardo, è la vicenda codificatoria italiana: malgrado il solco che lo separava dall’assetto del nuovo codice civile, il progetto (risorto come Progetto ufficiale del libro delle obbligazioni nel 1936) divenne infatti lo schizzo preparatorio del futuro libro IV del codice civile, senza contare che esso servì effettivamente da modello per alcuni codici stranieri, come i suoi padri avevano sperato. Meno conosciuto è invece il destino della sua ulteriore circolazione giurisprudenziale e dottrinale, che meriterebbe di essere meglio indagata. Così come ancora per la maggior parte rimangono da chiarire, nel contesto dottrinale e giurisprudenziale dell’epoca, le fonti delle soluzioni accolte nel codice.
Chiodi, G. (2007). Innovare senza distruggere: il progetto italo-francese di codice delle obbligazioni e dei contratti (1927). In G. Alpa, G. Chiodi (a cura di), Il progetto italo francese delle obbligazioni (1927). Un modello di armonizzazione nell'epoca della ricodificazione (pp. 223-326). Milano : Giuffrè Editore.
Innovare senza distruggere: il progetto italo-francese di codice delle obbligazioni e dei contratti (1927)
CHIODI, GIOVANNI
2007
Abstract
Il progetto italo-francese di codice delle obbligazioni e dei contratti è il frutto del lavoro di un gruppo di giuristi italiani e francesi, sotto la guida di Vittorio Scialoja. L’idea madre fu lanciata dal maestro romano nel 1916 e lo schema definitivo fu approvato nel 1927, corredato da una relazione stesa da Alfredo Ascoli e Roberto de Ruggiero. Il saggio ricostruisce le vicende della formazione del testo, dà voce ai giuristi protagonisti dell’impresa, individua le loro convinzioni e lo spirito delle scelte normative, soffermandosi quindi sul dibattito del dopo-Codice, sui giudizi dati da giuristi italiani e stranieri (con una ricostruzione della polemica Betti-Scialoja), proponendo un’interpretazione del ruolo svolto da questo prodotto insigne della scienza giuridica italiana, come lo ebbe a definire Filippo Vassalli, che fece da apripista rispetto al libro IV delle obbligazioni del 1941, pur essendone distante nell’ispirazione di fondo. Nelle considerazioni vassalliane, al di là del consenso-dissenso su determinate soluzioni tecniche, leggiamo una sentita approvazione dell’operazione di unificazione del diritto civile messa in cantiere con il codice italo-francese in un’epoca di forte radicamento del dogma statualista, che ne giustifica ancora oggi il recupero alla memoria dei giuristi impegnati nell’elaborazione del diritto privato europeo. Nell’accostarsi al progetto italo-francese di codice delle obbligazioni e dei contrattioccorre tenere presente che due anime lo compongono. Si tratta infatti di un testo che, se da un lato intendeva rinnovare il diritto nazionale italiano e francese, sostituendo in blocco, con i suoi articoli, le corrispondenti parti dei codici civili vigenti, dall’altro era espressione di un progetto ancor più ambizioso, mirante alla ricostituzione di un diritto comune europeo delle obbligazioni e dei contratti. Il codice italo-francese, inoltre, si colloca in un momento di trasformazione (sociale, economica, politica) e, come tutti i prodotti di transizione, accoglie elementi del passato e del futuro, presenta aspetti di continuità e di discontinuità. I tempi del primo dopoguerra sono tempi di crisi del diritto privato, della centralità del codice civile e dei valori di cui esso è portatore, e più in generale di crisi del diritto come struttura portante di una società. In questo frangente, l’iniziativa privata di alcuni giuristi (in seguito fatta propria dai rispettivi governi) porta avanti un progetto di unificazione giuridica, limitato al settore patrimoniale, visto ancora come quello in cui più concreto appare il miraggio dell’unità, meno accentuato il particolarismo. Primo tentativo europeo di uniformazione dell’intero diritto delle obbligazioni, sorgente di un diritto privato comune tutto da ricostruire, e primo esperimento di revisione dei codici civili nazionali in un momento cruciale: sono entrambi elementi che aiutano a spiegare le contraddizioni di questo codice, frutto di una politica deliberata di conciliazione e di compromesso. Non fu soltanto l’obiettivo pratico dell’unificazione a far sottovalutare la portata della trasformazione in atto nell’economia mondiale e a ritenere sufficiente una mera revisione, piuttosto che un totale ripensamento dei fondamenti del diritto delle obbligazioni e dei contratti, ma anche una franca e convinta adesione a quei dogmi. Assorbito nel dibattito incandescente sulle modalità di elaborazione del nuovo codice civile, il progetto finì per essere considerato un testo che guardava troppo al passato e poco all’avvenire, in ritardo sui tempi, anche se conteneva alcune ardite innovazioni sostanziali ed era mosso dalla ‘nobile’ finalità di ricomposizione di un’unità giuridica perduta. «Il regno del diritto comune era finito!»: con quest’invocazione, nella Relazione al Progetto, si esprimeva lo sgomento suscitato dall’avvento dei codici nazionali. Pur non avendo mai ricevuto forza di legge, il progetto fu ugualmente considerato come un testo di riferimento, imperio rationis, dalla giurisprudenza, dalla dottrina, dai legislatori. La più nota, a questo riguardo, è la vicenda codificatoria italiana: malgrado il solco che lo separava dall’assetto del nuovo codice civile, il progetto (risorto come Progetto ufficiale del libro delle obbligazioni nel 1936) divenne infatti lo schizzo preparatorio del futuro libro IV del codice civile, senza contare che esso servì effettivamente da modello per alcuni codici stranieri, come i suoi padri avevano sperato. Meno conosciuto è invece il destino della sua ulteriore circolazione giurisprudenziale e dottrinale, che meriterebbe di essere meglio indagata. Così come ancora per la maggior parte rimangono da chiarire, nel contesto dottrinale e giurisprudenziale dell’epoca, le fonti delle soluzioni accolte nel codice.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.