Le aspirazioni democratiche e progressiste alla base dell’attivismo pedagogico e delle esperienze delle “scuole nuove” permeano tutt’oggi molte delle pratiche educative e didattiche, fuori e dentro la scuola “tradizionale”. In particolare, alcune delle istanze caratterizzanti l’attivismo (la centralità dell’alunno e dei suoi bisogni; l’importanza del lavoro manuale e della libera scelta delle attività; un apprendimento situato, che rifiuta il sapere enciclopedico; la predilezione per i lavori collettivi) sono state rielaborate dall’educazione popolare, che pone al centro la cultura come dispositivo di lotta per l’emancipazione di tutti, soprattutto dei ceti umili – si pensi alle esperienze di Capitini, Don Milani e Dolci, ma soprattutto a quelle di Freinet (1973; Rizzi, 2017), che partecipa fin dagli anni ’20 agli incontri della Ligue Internationale de l’Éducation Nouvelle (come il Congresso di Montreux del 1923, dove avanza alcune riserve sull’applicazione di questa educazione al contesto popolare, oppure quello di Nizza del 1932). In più di un’occasione Freinet (1966; 1967) esprime un debito di riconoscenza verso gli esponenti dell’attivismo, alle cui teorie si ispira nella pratica; purtuttavia, per lui sono gli operatori scolastici ad avere il merito di essersi tirati su le maniche e aver realizzato il “sogno generoso dei pedagoghi”: «Ci sentiamo degli operai che hanno intrapreso il lavoro con un coraggio a dir poco temerario» (Freinet, 2002, p. 263). Sebbene alcuni movimenti educativi e culturali, come quello, appunto, dell’MCE, abbiano grande influenza, non è facile quantificare l’impatto di tali esperienze sul sistema pubblico di istruzione, che perpetua un modello di stampo neoliberista sempre più in difficoltà nel far fronte alle crescenti disuguaglianze socio-culturali (Eurostat, 2020; MIUR, 2018; Maia, 2020). Nel 1995 ha avanzato una proposta il White paper on education and training, presentato dalla Commissione Europea su iniziativa di Cresson, che ha spostato il focus educativo dalla first alla second chance, auspicando progetti-pilota che offrissero una “seconda opportunità” formativa agli individui in condizione di deprivazione. Nonostante insista sul nesso educazione/crescita economica, secondo un approccio competitivo, questo documento ha senz’altro avuto il merito di predisporre la lotta alla marginalità sociale dei minori, dando loro la possibilità di rientrare in formazione o terminare un percorso di studi. Le second chance schools si sono moltiplicate in Europa e in Italia (Brighenti & Bertazzoni, 2009), dove hanno assunto forme e finalità talvolta molto differenti tra loro, spesso confondendosi e integrandosi con esperienze simili di educazione popolare. Quali sono i modelli sottesi a queste esperienze? Quali pratiche e metodologie li caratterizzano? Nell’a.s. 2020/2021, sulla scorta di queste domande, è stato quindi avviato un percorso di ricerca qualitativa con l’équipe educativa (1 coordinatrice/educatrice e 2 educatori) della Scuola Popolare gestita dall’Associazione “Antonia Vita” di Monza, una scuola popolare della seconda occasione che ogni anno accoglie, in orario scolastico, una classe di circa 12 adolescenti (dai 13 ai 16 anni) ai margini o in difficoltà, con lo scopo principale di far conseguire loro la licenza secondaria di I grado. Il percorso, orientato anche allo sviluppo professionale dei partecipanti, rientra in un case study (Yin, 2006) tuttora in corso ed è stato co-progettato grazie alla stipula di una collaborazione scientifica tra l’Università Bicocca e l’Associazione. Dunque, da gennaio a settembre 2021, sono stati condotti 10 focus group, integralmente videoregistrati e trascritti, con tre obiettivi: 1. far emergere il modello agito della Scuola in modo intersoggettivamente costruito, anche per rilevare la coerenza con gli intenti dichiarati, che guardano all’educazione popolare e a una didattica laboratoriale; 2. definire una proposta educativa e didattica più rispondente al modello sotteso (Baldacci, 2017) e quindi ai bisogni del target della Scuola, ovvero alunni spesso multiproblematici o, per citare Ferrière, «senza famiglia»; 3. riflettere collettivamente sugli impliciti al fine di ri-orientare le azioni in classe e costruire una nuova identità professionale. L’analisi tematica della videoregistrazioni è in corso. Da alcuni primi risultati emerge un modello organizzativo di scuola in linea con il «laboratorio di pedagogia pratica» di cui parla Ferrière, che si basi su tre cardini: personalizzazione; laboratorialità; tutoraggio dei singoli. Nelle parole degli educatori, il termine “popolare” sembra racchiudere in sé il complesso di un universo valoriale che non si vuole perdere e anzi si intende rigenerare, valorizzando le “spinte dal basso” (come la presenza di insegnanti volontari) e gli sforzi per creare un ambiente inclusivo e accogliente, che funga da habitat naturale per gli studenti. Emergono le criticità dovute all’impossibilità di attuare un’«educazione integrale», così come la chiama Ferrière, e dunque la frustrazione che deriva dalla sensazione di non riuscire a incidere in modo davvero significativo sulla quotidianità dei ragazzi, totalmente immersi in una società tecnologica ed eccessivamente individualistica. La prospettiva di ricerca guarda alla raccolta e all’analisi di dati che approfondiscano il tema della relazione con i modelli pedagogici delle scuole pubbliche da cui provengono gli studenti di Scuola Popolare, nell’ottica di un lavoro sinergico tra competenze diverse e complementari.
Zecca, L., Cotza, V. (2021). Traces of active schooling in popular pedagogy and second chance experiences (Tracce di scuola attiva nella pedagogia popolare e nelle esperienze di seconda opportunità). In Book of abstracts del Convegno Internazionale SIRD “Quale scuola per i cittadini del mondo. A cento anni dalla fondazione della Ligue Internationale de l’Éducation Nouvelle” (pp.10-10).
Traces of active schooling in popular pedagogy and second chance experiences (Tracce di scuola attiva nella pedagogia popolare e nelle esperienze di seconda opportunità)
Zecca, L;Cotza, V
2021
Abstract
Le aspirazioni democratiche e progressiste alla base dell’attivismo pedagogico e delle esperienze delle “scuole nuove” permeano tutt’oggi molte delle pratiche educative e didattiche, fuori e dentro la scuola “tradizionale”. In particolare, alcune delle istanze caratterizzanti l’attivismo (la centralità dell’alunno e dei suoi bisogni; l’importanza del lavoro manuale e della libera scelta delle attività; un apprendimento situato, che rifiuta il sapere enciclopedico; la predilezione per i lavori collettivi) sono state rielaborate dall’educazione popolare, che pone al centro la cultura come dispositivo di lotta per l’emancipazione di tutti, soprattutto dei ceti umili – si pensi alle esperienze di Capitini, Don Milani e Dolci, ma soprattutto a quelle di Freinet (1973; Rizzi, 2017), che partecipa fin dagli anni ’20 agli incontri della Ligue Internationale de l’Éducation Nouvelle (come il Congresso di Montreux del 1923, dove avanza alcune riserve sull’applicazione di questa educazione al contesto popolare, oppure quello di Nizza del 1932). In più di un’occasione Freinet (1966; 1967) esprime un debito di riconoscenza verso gli esponenti dell’attivismo, alle cui teorie si ispira nella pratica; purtuttavia, per lui sono gli operatori scolastici ad avere il merito di essersi tirati su le maniche e aver realizzato il “sogno generoso dei pedagoghi”: «Ci sentiamo degli operai che hanno intrapreso il lavoro con un coraggio a dir poco temerario» (Freinet, 2002, p. 263). Sebbene alcuni movimenti educativi e culturali, come quello, appunto, dell’MCE, abbiano grande influenza, non è facile quantificare l’impatto di tali esperienze sul sistema pubblico di istruzione, che perpetua un modello di stampo neoliberista sempre più in difficoltà nel far fronte alle crescenti disuguaglianze socio-culturali (Eurostat, 2020; MIUR, 2018; Maia, 2020). Nel 1995 ha avanzato una proposta il White paper on education and training, presentato dalla Commissione Europea su iniziativa di Cresson, che ha spostato il focus educativo dalla first alla second chance, auspicando progetti-pilota che offrissero una “seconda opportunità” formativa agli individui in condizione di deprivazione. Nonostante insista sul nesso educazione/crescita economica, secondo un approccio competitivo, questo documento ha senz’altro avuto il merito di predisporre la lotta alla marginalità sociale dei minori, dando loro la possibilità di rientrare in formazione o terminare un percorso di studi. Le second chance schools si sono moltiplicate in Europa e in Italia (Brighenti & Bertazzoni, 2009), dove hanno assunto forme e finalità talvolta molto differenti tra loro, spesso confondendosi e integrandosi con esperienze simili di educazione popolare. Quali sono i modelli sottesi a queste esperienze? Quali pratiche e metodologie li caratterizzano? Nell’a.s. 2020/2021, sulla scorta di queste domande, è stato quindi avviato un percorso di ricerca qualitativa con l’équipe educativa (1 coordinatrice/educatrice e 2 educatori) della Scuola Popolare gestita dall’Associazione “Antonia Vita” di Monza, una scuola popolare della seconda occasione che ogni anno accoglie, in orario scolastico, una classe di circa 12 adolescenti (dai 13 ai 16 anni) ai margini o in difficoltà, con lo scopo principale di far conseguire loro la licenza secondaria di I grado. Il percorso, orientato anche allo sviluppo professionale dei partecipanti, rientra in un case study (Yin, 2006) tuttora in corso ed è stato co-progettato grazie alla stipula di una collaborazione scientifica tra l’Università Bicocca e l’Associazione. Dunque, da gennaio a settembre 2021, sono stati condotti 10 focus group, integralmente videoregistrati e trascritti, con tre obiettivi: 1. far emergere il modello agito della Scuola in modo intersoggettivamente costruito, anche per rilevare la coerenza con gli intenti dichiarati, che guardano all’educazione popolare e a una didattica laboratoriale; 2. definire una proposta educativa e didattica più rispondente al modello sotteso (Baldacci, 2017) e quindi ai bisogni del target della Scuola, ovvero alunni spesso multiproblematici o, per citare Ferrière, «senza famiglia»; 3. riflettere collettivamente sugli impliciti al fine di ri-orientare le azioni in classe e costruire una nuova identità professionale. L’analisi tematica della videoregistrazioni è in corso. Da alcuni primi risultati emerge un modello organizzativo di scuola in linea con il «laboratorio di pedagogia pratica» di cui parla Ferrière, che si basi su tre cardini: personalizzazione; laboratorialità; tutoraggio dei singoli. Nelle parole degli educatori, il termine “popolare” sembra racchiudere in sé il complesso di un universo valoriale che non si vuole perdere e anzi si intende rigenerare, valorizzando le “spinte dal basso” (come la presenza di insegnanti volontari) e gli sforzi per creare un ambiente inclusivo e accogliente, che funga da habitat naturale per gli studenti. Emergono le criticità dovute all’impossibilità di attuare un’«educazione integrale», così come la chiama Ferrière, e dunque la frustrazione che deriva dalla sensazione di non riuscire a incidere in modo davvero significativo sulla quotidianità dei ragazzi, totalmente immersi in una società tecnologica ed eccessivamente individualistica. La prospettiva di ricerca guarda alla raccolta e all’analisi di dati che approfondiscano il tema della relazione con i modelli pedagogici delle scuole pubbliche da cui provengono gli studenti di Scuola Popolare, nell’ottica di un lavoro sinergico tra competenze diverse e complementari.File | Dimensione | Formato | |
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