Il lavoro di fabbrica nel 900 si è sviluppato seguendo prevalentemente il modello tayloristico-fordista simboleggiato dalle operazioni elementari ripetute infinite volte ogni giorno alla catena di montaggio. La Olivetti, prima tra le maggiori imprese italiane, negli anni 70 attua una profonda trasformazione dell’organizzazione del lavoro di fabbrica in concomitanza con il passaggio da prodotti a tecnologia meccanica verso una crescente diffusione di macchine da ufficio a tecnologia elettronica. Nascono le unità di montaggio integrate (UMI) o isole di produzione. Sono piccole unità produttive formate da 15-20 lavoratori responsabili della qualità e del collaudo di un prodotto o di una sua parte: non più un lavoro a catena fatto di operazioni semplici, della durata di pochi secondi, ma un lavoro a senso compiuto e ricomposto in ruoli decisamente più complessi che richiedono competenza e responsabilità. Migliaia di lavoratori partecipano a corsi di formazione ma soprattutto imparano dai capi e dai compagni. Questa soluzione fu preparata da studi, progetti, idealità di una classe di dirigenti, tecnici, operai che avevano assorbito la lezione di Adriano Olivetti e che condividevano l’aspirazione a ricomporre e valorizzare il lavoro umano in frantumi. Ma questa aspirazione si trasformò in progetto solo in virtù della capacità di interpretare correttamente due fattori strutturali. Il primo fu un nuovo contesto industriale: prodotti modulari, frequenti cambiamenti di modelli, necessità di anticipazione sul mercato, continui cambiamenti nei volumi. A questi fattori si rispose con inedite soluzioni organizzative basate su criteri economici allora non convenzionali come produzione della qualità, flessibilità, time to market, riduzione del lavoro indiretto e altro. Il secondo fattore era dato da un nuovo contesto sociale e politico turbolento dell’Italia del 68, a cui venne data una risposta con soluzioni inquadramentali e retributive ( riqualificazione e premio UMI) ottenute attraverso una gestione reciprocamente rispettosa delle relazioni industriali e una sostanziale convergenza sugli obbiettivi di fondo, ossia la sopravvivenza e il successo economico dell’impresa e il miglioramento della qualità della vita di lavoro. Le soluzioni organizzative e gestionali non furono automatiche ma bensì frutto di un processo di cambiamento che fu innovativo almeno quanto le soluzioni in sé. Questo cambiamento, coordinato da Federico Butera allora a capo del Centro di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione che era stato fondato da Luciano Gallino, fu centrato su un ciclo ricorsivo di esperimenti, generazione di nuovi paradigmi, apprendimenti, decisioni, negoziazioni, diffusione, formazione, il tutto continuamente verificando la tenuta economica e alla sostenibilità umana. Questo anticipò quello che il testo definisce il modello del “change management strutturale”, adottato da allora in molti processi di gestione delle discontinuità e dell’innovazione. L'Olivetti si salvò, a differenza di altre aziende europee simili, da una discontinuità tecnologica che non lasciava in piedi quasi niente del tradizionale universo produttivo basato sulla produzione meccanica su larga scala. La tesi di questo studio è che ciò avvenne perché fu dato valore al lavoro umano, perché furono trovate soluzioni organizzative affidabili e flessibili e perché ciò fu fatto attivando un diffuso processo di partecipazione alla innovazione tecnico-organizzativa, realizzato con rara prontezza e competenza. La Olivetti in quel momento di pericolo fu capace di attivare le proprie “eredità dinamiche”, ossia quello scrigno delle competenze tecniche, organizzative e morali accumulate negli anni e proiettarle verso il futuro. La lezione di questo processo è che innovare le organizzazioni vuole dire ricordare, valorizzare il capitale conoscitivo e sociale, ascoltare le novità prodotte dal basso. L’invenzione è una sorpresa. L’innovazione, invece, ha un cuore antico, un grande orecchio e l’occhio al futuro. Da questa positiva esperienza della Olivetti degli anni ’70, che rappresenta un momento fondamentale nella trasformazione del lavoro ed un capitolo di rilievo nella storia dell’industria italiana, derivano spunti e suggestioni per riflettere sulla trasformazione dei modelli organizzativi del lavoro e sui modelli di cambiamento di oggi non solo nelle fabbriche ma in tutte le attività produttive, favorendo l’emergere di nuove forme di organizzazioni basate su cooperazione, conoscenza, comunicazione e comunità, su valorizzazione del lavoro, su orientamento condiviso ai risultati e attivando modelli di partecipazione reale al processo produttivo. Federico Butera in questo volume è autore della prima parte ( pagg 9-149) dal titolo “ Dal taylor-fordismo alle microstrutture produttive flessibili. La gestione del cambiamento del lavoro e dell’impresa”
Butera, F., de Witt, G. (2011). Valorizzare il lavoro per rilanciare l'impresa (F. Butera, G. de Witt, a cura di). Bologna : Il Mulino.
Valorizzare il lavoro per rilanciare l'impresa
BUTERA, FEDERICO;
2011
Abstract
Il lavoro di fabbrica nel 900 si è sviluppato seguendo prevalentemente il modello tayloristico-fordista simboleggiato dalle operazioni elementari ripetute infinite volte ogni giorno alla catena di montaggio. La Olivetti, prima tra le maggiori imprese italiane, negli anni 70 attua una profonda trasformazione dell’organizzazione del lavoro di fabbrica in concomitanza con il passaggio da prodotti a tecnologia meccanica verso una crescente diffusione di macchine da ufficio a tecnologia elettronica. Nascono le unità di montaggio integrate (UMI) o isole di produzione. Sono piccole unità produttive formate da 15-20 lavoratori responsabili della qualità e del collaudo di un prodotto o di una sua parte: non più un lavoro a catena fatto di operazioni semplici, della durata di pochi secondi, ma un lavoro a senso compiuto e ricomposto in ruoli decisamente più complessi che richiedono competenza e responsabilità. Migliaia di lavoratori partecipano a corsi di formazione ma soprattutto imparano dai capi e dai compagni. Questa soluzione fu preparata da studi, progetti, idealità di una classe di dirigenti, tecnici, operai che avevano assorbito la lezione di Adriano Olivetti e che condividevano l’aspirazione a ricomporre e valorizzare il lavoro umano in frantumi. Ma questa aspirazione si trasformò in progetto solo in virtù della capacità di interpretare correttamente due fattori strutturali. Il primo fu un nuovo contesto industriale: prodotti modulari, frequenti cambiamenti di modelli, necessità di anticipazione sul mercato, continui cambiamenti nei volumi. A questi fattori si rispose con inedite soluzioni organizzative basate su criteri economici allora non convenzionali come produzione della qualità, flessibilità, time to market, riduzione del lavoro indiretto e altro. Il secondo fattore era dato da un nuovo contesto sociale e politico turbolento dell’Italia del 68, a cui venne data una risposta con soluzioni inquadramentali e retributive ( riqualificazione e premio UMI) ottenute attraverso una gestione reciprocamente rispettosa delle relazioni industriali e una sostanziale convergenza sugli obbiettivi di fondo, ossia la sopravvivenza e il successo economico dell’impresa e il miglioramento della qualità della vita di lavoro. Le soluzioni organizzative e gestionali non furono automatiche ma bensì frutto di un processo di cambiamento che fu innovativo almeno quanto le soluzioni in sé. Questo cambiamento, coordinato da Federico Butera allora a capo del Centro di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione che era stato fondato da Luciano Gallino, fu centrato su un ciclo ricorsivo di esperimenti, generazione di nuovi paradigmi, apprendimenti, decisioni, negoziazioni, diffusione, formazione, il tutto continuamente verificando la tenuta economica e alla sostenibilità umana. Questo anticipò quello che il testo definisce il modello del “change management strutturale”, adottato da allora in molti processi di gestione delle discontinuità e dell’innovazione. L'Olivetti si salvò, a differenza di altre aziende europee simili, da una discontinuità tecnologica che non lasciava in piedi quasi niente del tradizionale universo produttivo basato sulla produzione meccanica su larga scala. La tesi di questo studio è che ciò avvenne perché fu dato valore al lavoro umano, perché furono trovate soluzioni organizzative affidabili e flessibili e perché ciò fu fatto attivando un diffuso processo di partecipazione alla innovazione tecnico-organizzativa, realizzato con rara prontezza e competenza. La Olivetti in quel momento di pericolo fu capace di attivare le proprie “eredità dinamiche”, ossia quello scrigno delle competenze tecniche, organizzative e morali accumulate negli anni e proiettarle verso il futuro. La lezione di questo processo è che innovare le organizzazioni vuole dire ricordare, valorizzare il capitale conoscitivo e sociale, ascoltare le novità prodotte dal basso. L’invenzione è una sorpresa. L’innovazione, invece, ha un cuore antico, un grande orecchio e l’occhio al futuro. Da questa positiva esperienza della Olivetti degli anni ’70, che rappresenta un momento fondamentale nella trasformazione del lavoro ed un capitolo di rilievo nella storia dell’industria italiana, derivano spunti e suggestioni per riflettere sulla trasformazione dei modelli organizzativi del lavoro e sui modelli di cambiamento di oggi non solo nelle fabbriche ma in tutte le attività produttive, favorendo l’emergere di nuove forme di organizzazioni basate su cooperazione, conoscenza, comunicazione e comunità, su valorizzazione del lavoro, su orientamento condiviso ai risultati e attivando modelli di partecipazione reale al processo produttivo. Federico Butera in questo volume è autore della prima parte ( pagg 9-149) dal titolo “ Dal taylor-fordismo alle microstrutture produttive flessibili. La gestione del cambiamento del lavoro e dell’impresa”I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.