Dai dati di letteratura possiamo dividere le madri che commettono un figlicidio in due grosse categorie: alcune uccidono in un contesto di degrado sociale e povertà economica, spesso hanno subito violenze domestiche durante l’infanzia, sono più giovani e meno colte rispetto alla categoria di confronto, spesso non sposate e devono affrontare una gravidanza non desiderata. Sono meno frequentemente affette da patologia psichiatrica e spesso l’omicidio può essere collocato in un clima di abuso nei confronti della prole. Causano generalmente la morte di un solo figlio, per incuria o per un atto violento non premeditato (shaken baby syndrome, trauma cranico). Sono meno inclini al tentativo di suicidio dopo l’atto. L’altra categoria è composta invece da donne più mature, colte, che uccidono tutta la prole con un atto premeditato, utilizzando un metodo violento. L’omicidio si configura come altruistico o atto di vendetta verso il coniuge. Spesso sono separate/divorziate e affette da patologia psichiatrica (soprattutto depressione postpartum). Nella maggior parte dei casi commettono agiti anticonservativi e hanno un’anamnesi positiva per autolesività. Spesso comunicano il loro pensiero omicida sia al curante che ai familiari, ma il loro appello resta inascoltato. Ciò che sembra accomunare le donne che uccidono i propri figli è il contesto di solitudine in cui vivono. Sia esso dovuto al degrado sociale, al fatto che il loro malessere psichico non venga adeguatamente accolto o all’affrontare una gravidanza sole, l’isolamento che percepiscono può condurre a un circolo vizioso insostenibile e che conduce ad agiti estremi quali quelli in esame.
di GIACOMO, E., Clerici, M. (2009). Madri omicide: violenza, psicopatologia e isolamento sociale. MINERVA PSICHIATRICA, 50(2), 117-121.
Madri omicide: violenza, psicopatologia e isolamento sociale
di GIACOMO, ESTER;CLERICI, MASSIMO
2009
Abstract
Dai dati di letteratura possiamo dividere le madri che commettono un figlicidio in due grosse categorie: alcune uccidono in un contesto di degrado sociale e povertà economica, spesso hanno subito violenze domestiche durante l’infanzia, sono più giovani e meno colte rispetto alla categoria di confronto, spesso non sposate e devono affrontare una gravidanza non desiderata. Sono meno frequentemente affette da patologia psichiatrica e spesso l’omicidio può essere collocato in un clima di abuso nei confronti della prole. Causano generalmente la morte di un solo figlio, per incuria o per un atto violento non premeditato (shaken baby syndrome, trauma cranico). Sono meno inclini al tentativo di suicidio dopo l’atto. L’altra categoria è composta invece da donne più mature, colte, che uccidono tutta la prole con un atto premeditato, utilizzando un metodo violento. L’omicidio si configura come altruistico o atto di vendetta verso il coniuge. Spesso sono separate/divorziate e affette da patologia psichiatrica (soprattutto depressione postpartum). Nella maggior parte dei casi commettono agiti anticonservativi e hanno un’anamnesi positiva per autolesività. Spesso comunicano il loro pensiero omicida sia al curante che ai familiari, ma il loro appello resta inascoltato. Ciò che sembra accomunare le donne che uccidono i propri figli è il contesto di solitudine in cui vivono. Sia esso dovuto al degrado sociale, al fatto che il loro malessere psichico non venga adeguatamente accolto o all’affrontare una gravidanza sole, l’isolamento che percepiscono può condurre a un circolo vizioso insostenibile e che conduce ad agiti estremi quali quelli in esame.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.