Stretti nella morsa del dover dire, del dover comunicare, della responsività, della pubblicazione (nei più diversi ambiti e con i più diversi media), sembrerebbe che la performatività del logos, nelle sue diverse forme, si sia costituita come un valore e come un riconoscimento non solo del soggetto, ma di una comunità. E delle sue regole. L’elemento inattuale che desidero considerare -in una prospettiva che abbracci il pensiero dell’educare- riguarda quelle dimensioni che sono luogo di margine e possibilità, che si costituiscono come territori inquieti che pongono la riflessione (e l’esperienza) sul crinale tra visibile e invisibile, dicibile e indicibile, pensabile e impensabile. Per poter abitare tali dimensioni, è necessario che il pensiero si diriga verso quello spazio di dis-conoscenza (usando un termine caro al pensiero di Maria Zambrano) che ci porta in contatto con una sorta di immersione originaria che ponga in dialogo le dualità e non faccia cogliere, per esempio, il silenzio come un’antitesi della comunicazione, ma ne riveli anzi la potenza comunicativa, il linguaggio, la possibilità e soprattutto il senso. Heidegger invitava ad allontanarsi dalla chiacchiera, Jankelevitch suggeriva di osservare il silenzio che si cela dietro al brusio quotidiano. La pratica educativa, così come la riflessione pedagogica (ma anche la scrittura della ricerca, lo sguardo dell’indagine, la cura dell’ascolto e l’accoglienza dell’alterità…) hanno bisogno di confrontarsi con il valore della sottrazione, del non vedere, dell’arrivare in ritardo sul senso dell’altro (come suggerisce Maria Zambrano), dell’imparare la poetica del silenzio, della delicatezza, del riserbo proprio a partire da esperienze estetiche che sono in grado di educare o rieducare sguardo, ascolto e senso a pratiche di conversazione con la retorica dell’altro.
Mancino, E. (2019). Un passo indietro. Silenzio e delicatezza per un'estetica dell'educare. NUOVA SECONDARIA, 2 ottobre 2019.
Un passo indietro. Silenzio e delicatezza per un'estetica dell'educare
Mancino, E
2019
Abstract
Stretti nella morsa del dover dire, del dover comunicare, della responsività, della pubblicazione (nei più diversi ambiti e con i più diversi media), sembrerebbe che la performatività del logos, nelle sue diverse forme, si sia costituita come un valore e come un riconoscimento non solo del soggetto, ma di una comunità. E delle sue regole. L’elemento inattuale che desidero considerare -in una prospettiva che abbracci il pensiero dell’educare- riguarda quelle dimensioni che sono luogo di margine e possibilità, che si costituiscono come territori inquieti che pongono la riflessione (e l’esperienza) sul crinale tra visibile e invisibile, dicibile e indicibile, pensabile e impensabile. Per poter abitare tali dimensioni, è necessario che il pensiero si diriga verso quello spazio di dis-conoscenza (usando un termine caro al pensiero di Maria Zambrano) che ci porta in contatto con una sorta di immersione originaria che ponga in dialogo le dualità e non faccia cogliere, per esempio, il silenzio come un’antitesi della comunicazione, ma ne riveli anzi la potenza comunicativa, il linguaggio, la possibilità e soprattutto il senso. Heidegger invitava ad allontanarsi dalla chiacchiera, Jankelevitch suggeriva di osservare il silenzio che si cela dietro al brusio quotidiano. La pratica educativa, così come la riflessione pedagogica (ma anche la scrittura della ricerca, lo sguardo dell’indagine, la cura dell’ascolto e l’accoglienza dell’alterità…) hanno bisogno di confrontarsi con il valore della sottrazione, del non vedere, dell’arrivare in ritardo sul senso dell’altro (come suggerisce Maria Zambrano), dell’imparare la poetica del silenzio, della delicatezza, del riserbo proprio a partire da esperienze estetiche che sono in grado di educare o rieducare sguardo, ascolto e senso a pratiche di conversazione con la retorica dell’altro.File | Dimensione | Formato | |
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